domenica 6 gennaio 2013

Maxwell Maltz – Potete acquisire l’abitudine alla felicità

(Da “Psicocibernetica” – Ed. Astrolabio)


La definizione della felicità che dà il dott. John A. Schindler è: “…uno stato mentale in cui abbiamo pensieri piacevoli per buona parte del tempo”. Da un punto di vista medico ed anche etico, non credo che questa semplice definizione possa essere migliorata.


La felicità è una buona medicina

La felicità è innata nello spirito e nella macchina fisica dell’uomo. Pensiamo, agiamo, ci sentiamo meglio e abbiamo una salute migliore se siamo felici e anche i nostri organi sensoriali funzionano meglio. Lo psicologo russo K. Kekcheyev ha eseguito esperimenti su individui sia quando pensavano a cose piacevoli che a cose spiacevoli. Egli notò che, pensando a cose piacevoli, essi potevano vedere, gustare, odorare e udire meglio e acutizzare il loro senso del tatto. Il dott. William Banes ha provato che la vista dell’uomo migliora immediatamente quando l’individuo è immerso in pensieri piacevoli o quando si trova di fronte a scene gradevoli. Margaret Corbett ha osservato che nelle stesse condizioni si rafforza la memoria e la mente si rilassa. La Medicina Psicosomatica ha provato che lo stomaco, il fegato, il cuore e tutti gli altri organi interni funzionano meglio quando siamo felici. Migliaia di anni fa il vecchio, saggio re Salomone disse nei suoi Proverbi: “Un cuore felice fa del bene come una medicina, ma un cuore spezzato prosciuga le ossa”. È anche significativo il fatto che tanto il Giudaesimo quanto il Cristianesimo indicano gioia, letizia, riconoscenza e contentezza come mezzi per il raggiungimento della rettitudine e di una vita virtuosa.

Gli psicologi di Harvard hanno studiato il rapporto tra felicità e criminalità e hanno concluso che il vecchio proverbio olandese “I felici non sono mai malvagi” è scientificamente vero. Essi scoprirono che la maggioranza dei criminali proveniva da famiglie infelici e avevano avuto rapporti umani infelici. Uno studio svolto per dieci anni all’Università di Yale sulla frustrazione, dimostrò che gran parte di ciò che noi chiamiamo immoralità e ostilità verso gli altri è causata dalla nostra stessa infelicità. Il dott. Schindler ha affermato che l’infelicità è la sola causa di tutti i disturbi psicosomatici e che la felicità è il solo rimedio. Una recente indagine ha dimostrato ampiamente che uomini di affari, ottimisti e sereni che “considerano il lato migliore delle cose” hanno più successo dei pessimisti.

È evidente che nel nostro normale modo di pensare alla felicità abbiamo posposto i termini: “Siate buoni e sarete felici”, affermiamo. “Sarei felice se avessi successo e buona salute”, diciamo a noi stessi. “Siate gentili e teneri verso il prossimo e sarete felici”, sarebbe più esatto dire: “Siate felici e sarete buoni, avrete maggior successo, godrete di una salute migliore, vi sentirete e agirete con più carità verso il prossimo”.


Comuni concezioni errate sulla felicità

La felicità non è qualcosa da guadagnarsi o da meritarsi, non è una dote morale più di quanto lo sia la circolazione del sangue. Entrambe sono necessarie alla salute e al benessere. La felicità è semplicemente uno “stato mentale in cui abbiamo pensieri piacevoli per buona parte del tempo”. Se aspettate fino a “meritare” di avere pensieri gradevoli è probabile che continuerete ad averne di sgradevoli pensando alla vostra indegnità. “La felicità non è la ricompensa alla virtù – disse Spinoza – ma la virtù stessa. Noi siamo felici non perché tratteniamo i nostri ardenti desideri ma, al contrario, siamo in grado di vincerli perché siamo felici”.


La ricerca della felicità non è egoismo

Molti individui, sinceri e onesti, sono trattenuti dalla ricerca della felicità perché pensano che sarebbe “egoistico” e “sbagliato”. L’altruismo conduce alla felicità, perché non solo allontana la nostra mente dall’esame e dalla introspezioni di noi stessi, dei nostri peccati, delle nostre colpe e dei nostri problemi (tutto ciò che costituisce i nostri pensieri sgradevoli), e ci trattiene dall’inorgoglirci per la nostra “bontà”, ma ci dà la possibilità di esprimere noi stessi creativamente, di soddisfare noi stessi aiutando gli altri. Uno dei pensieri più gradevoli per ogni essere umano è quello di sentirsi necessari, importanti e capaci abbastanza da poter aiutare gli altri e renderli più felici. Tuttavia se facciamo della felicità un requisito morale e la consideriamo come qualcosa che si può raggiungere come ricompensa all’altruismo, allora siamo portati a considerarci colpevoli solo per il fatto di volerla raggiungere. La felicità deriva dall’essere e dall’agire senza egoismo, ma come una naturale componente dell’essere e dell’agire, non come un “pagamento” o un “premio”. Se venissimo ricompensati per il nostro altruismo la logica conseguenza sarebbe presumere che più ci rendiamo miseri e più senso di abnegazione nutriamo, più felici dovremmo essere. La premessa porta alla assurda conclusione che si arriva alla felicità con l’infelicità.

Se di morale si parla, essa è nella felicità piuttosto che nell’infelicità. “L’’atteggiamento di infelicità è non solo doloroso, ma spiacevole e meschino” disse William James. Non importa quali cause o malanni esteriori abbiano potuto far nascere in un uomo un carattere piagnucoloso, lamentoso e scontento; cosa c’è di più vile e indegno? Cosa ci può essere di più offensivo verso gli altri? Cosa può aiutare meno di questo atteggiamento a risolvere le difficoltà? Questo non fa altro che aggravare e perpetuare il guaio che lo ha provocato, aumentando il danno totale della situazione.


La felicità non sta nel futuro ma nel presente

Noi non viviamo, speriamo soltanto di vivere, e aspettandoci sempre la felicità in futuro. È inevitabile che non siamo mai felici”, disse Pascal.

Ho notato che una delle cause più comuni della infelicità dei miei pazienti consiste nel fatto che cercano di vivere sul piano di un pagamento differito, non vivono cioè, né godono oggi della vita, ma aspettano sempre un avvenimento futuro. Saranno felici quando si sposeranno, quando avranno un lavoro migliore, quando avranno finito di pagare la casa, quando i figli avranno terminato l’università, quando avranno portato a compimento una data cosa o quando avranno ottenuto una vittoria, ma invariabilmente vengono delusi. La felicità è un abito, un atteggiamento mentale, e se non si impara e non se ne fa pratica nel presente non si avrà mai. Non deve essere condizionata alla soluzione di un problema esterno, poiché risolto un problema ne sorge immediatamente un altro. La vita è una serie di problemi. Se volete essere felici sempre, dovete esserlo per abitudine mentale, non a “causa” di qualcosa.


La felicità è una abitudine mentale che si può coltivare e sviluppare

La maggior parte delle persone è felice nella misura in cui hanno deciso di esserlo”, disse Abraham Lincoln.

La felicità è un fatto puramente interiore – disse lo psicologo dott. Matthew N. Chappell – non è un prodotto degli oggetti, ma delle idee, dei pensieri, degli atteggiamenti che nascono e si sviluppano dalle attività proprie dell’individuo, indipendentemente dall’ambiente”.

Nessuno, tranne un santo, può essere sempre felice al cento per cento e, come ironicamente affermò George Bernard Shaw, saremmo scontenti se lo fossimo. Ma possiamo, pensando e prendendo una semplice decisione riguardo ai piccoli fatti e avvenimenti della vita quotidiana, che ci rende ora infelici, diventare felici e avere pensieri gradevoli per buona parte del tempo. In larga misura, è semplicemente per abitudine che abbiamo una reazione di contentezza, insoddisfazione, risentimento e irritazione in seguito a piccole contrarietà, a delusioni o ad altri avvenimenti analoghi. Noi abbiamo reagito n questo modo così a lungo, che è diventata una abitudine per noi. In linea di massima, questa nostra reazione di infelicità ha origine dal fatto che abbiamo interpretato un qualsiasi avvenimento come una scossa alla stima che abbiamo di noi stessi. Un automobilista ci suona il clacson senza necessità, qualcuno ci interrompe o non fa attenzione mentre parliamo, qualcun altro non agisce verso di noi come noi pensiamo che dovrebbe agire. A tutto questo e anche ad eventi che non ci toccano personalmente reagiamo come se fossero affronti alla stima che nutriamo per noi stessi, perché li interpretiamo come tali. L’autobus che dovevamo prendere arriva in ritardo, quando vogliamo giocare a golf piove, se dobbiamo prendere l’aereo ci troviamo in un ingorgo di traffico: a tutto ciò abbiamo una reazione di rabbia, di risentimento, di autocompassione. In una parola: di infelicità.


Fate sistematicamente pratica di una “sana disposizione mentale”

La misura della sanità mentale è data dalla disposizione a vedere il bene dappertutto”, disse il famoso moralista Ralph Waldo Emerson.

L’idea che la felicità, o il saper mantenere pensieri gradevoli la maggior parte del tempo, possa essere coltivata deliberatamente e sistematicamente facendone pratica più o meno a sangue freddo, sembra incredibile ai miei pazienti, se non addirittura ridicola, la prima volta che io faccio tale affermazione. Tuttavia l’esperienza ha dimostrato che è quasi l’unica via in cui si può coltivare “l’abitudine” alla felicità. In primo luogo la felicità non è qualcosa che capita per caso, è qualcosa che voi stessi create e sulla base della quale decidete. Se aspettate che sia la felicità a piovervi addosso, aspetterete piuttosto a lungo. Nessuno, tranne voi, può decidere i vostri pensieri. Se aspettate che le circostanze “giustifichino” i vostri pensieri piacevoli, potete anche aspettare per sempre. Ogni giorno è un misto di bene e di male, nessun giorno e nessuna circostanza sono mai “buoni” al cento per cento. Vi sono sempre elementi e “fatti” al mondo e nella nostra vita personale che “giustificano” considerazioni pessimistiche e malinconiche, o ottimistiche e felici, a seconda della nostra scelta. È questione di scelta, di attenzione, di decisione, ma non è neanche questione di essere intellettualmente onesti o disonesti. Il bene è “reale” come il male, è semplicemente questione di decidere a quale dei due volgere più intensamente l’attenzione, di decidere quali pensieri sono nella nostra mente.

Scegliere deliberatamente di avere pensieri sereni è più di un palliativo, può dare risultati molto pratici. Carl Erskine, il famoso lanciatore di baseball, ha detto che avere pensieri sgradevoli lo faceva sentire peggio di un cattivo lancio. “Una predica mi ha aiutato a superare la tensione più dei consigli di qualsiasi allenatore – egli ha affermato – Il fatto è che dovremmo fare come gli scoiattoli che mettono da parte le noci. Dovremmo immagazzinare i momenti di felicità e di trionfo in modo che, nel corso di una crisi, possiamo trovare in questi ricordi aiuto e ispirazione. Da bambino andavo sempre a pescare nell’ansa di un piccolo fiume in campagna, poco fuori dal paese in cui abitavo. Posso ricordare vividamente la scena al centro di un enorme, verde pascolo, circondato da alti alberi ombrosi. Ogni qualvolta la tensione mi porta a lanciare troppo lontano o troppo vicino, mi concentro nel ricordo di questa scena serena, e i nodi dentro di me si sciolgono”.


Un intervento chirurgico sul pensiero, non sul naso

Un giovane rappresentante aveva deciso di lasciare il lavoro dopo avermi consultato per un intervento al naso, che era leggermente più largo del normale, ma non certo “ripugnante” come lui sosteneva.

Aveva la sensazione che i suoi eventuali clienti ridesse del suo naso o ne provassero addirittura repulsione. Era un “fatto” che avesse un naso largo, era un “fatto” che tre clienti si erano lamentati del suo comportamento brusco e ostile, era un “fatto” che il suo capo lo aveva messo alla prova e che in due settimane egli non era riuscito ad effettuare neanche una vendita. Invece di un intervento al naso gli suggerii di eseguire egli stesso un’operazione sulla mente. Per trenta giorni doveva “tagliar fuori” tutti quanti i pensieri negativi della sua situazione e accentrare deliberatamente la sua attenzione su pensieri gradevoli. Alla fine dei trenta giorni non solo si sentì meglio ma i suoi rapporti con i compratori erano divenuti più amichevoli, le vendite erano costantemente in aumento, e il suo capo si era congratulato in pubblico con lui nel corso di un congresso di venditori.

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