Archivio posts
-
▼
2013
(13)
-
▼
gennaio
(13)
- Pensiero Positivo - Introduzione
- Roberto Assagioli – Le Leggi
- Roberto Assagioli – Epistemologia della Coscienza
- Roberto Assagioli – Pensiero e Meditazione
- Sai Baba – Dalla mente il Bene e il Male
- Sai Baba – Le parabole della mente
- Sai Baba – La Meditazione
- Teilhard de Chardin
- Annie Besant – Il potere del pensiero
- Mère – Sul pensiero
- Maxwell Maltz – Meccanismo creativo
- Maxwell Maltz – Potete acquisire l’abitudine alla ...
- Ho-oponopono e il pensiero - Il cammino davvero fa...
-
▼
gennaio
(13)
Powered by Blogger.
Informazioni personali
domenica 6 gennaio 2013
Maxwell Maltz – Potete acquisire l’abitudine alla felicità
(Da “Psicocibernetica” – Ed. Astrolabio)
La definizione della felicità che dà il dott.
John A. Schindler è: “…uno stato mentale
in cui abbiamo pensieri piacevoli per buona parte del tempo”. Da un punto
di vista medico ed anche etico, non credo che questa semplice definizione possa
essere migliorata.
La felicità è innata nello spirito e nella
macchina fisica dell’uomo. Pensiamo, agiamo, ci sentiamo meglio e abbiamo una
salute migliore se siamo felici e anche i nostri organi sensoriali funzionano
meglio. Lo psicologo russo K. Kekcheyev ha eseguito esperimenti su individui
sia quando pensavano a cose piacevoli che a cose spiacevoli. Egli notò che,
pensando a cose piacevoli, essi potevano vedere, gustare, odorare e udire
meglio e acutizzare il loro senso del tatto. Il dott. William Banes ha provato
che la vista dell’uomo migliora immediatamente quando l’individuo è immerso in
pensieri piacevoli o quando si trova di fronte a scene gradevoli. Margaret
Corbett ha osservato che nelle stesse condizioni si rafforza la memoria e la
mente si rilassa. La Medicina Psicosomatica ha provato che lo stomaco, il
fegato, il cuore e tutti gli altri organi interni funzionano meglio quando
siamo felici. Migliaia di anni fa il vecchio, saggio re Salomone disse nei suoi
Proverbi: “Un cuore felice fa del bene
come una medicina, ma un cuore spezzato prosciuga le ossa”. È anche
significativo il fatto che tanto il Giudaesimo quanto il Cristianesimo indicano
gioia, letizia, riconoscenza e contentezza come mezzi per il raggiungimento della
rettitudine e di una vita virtuosa.
Gli psicologi di Harvard hanno studiato il
rapporto tra felicità e criminalità e hanno concluso che il vecchio proverbio
olandese “I felici non sono mai malvagi”
è scientificamente vero. Essi scoprirono che la maggioranza dei criminali
proveniva da famiglie infelici e avevano avuto rapporti umani infelici. Uno
studio svolto per dieci anni all’Università di Yale sulla frustrazione,
dimostrò che gran parte di ciò che noi chiamiamo immoralità e ostilità verso
gli altri è causata dalla nostra stessa infelicità. Il dott. Schindler ha
affermato che l’infelicità è la sola causa di tutti i disturbi psicosomatici e
che la felicità è il solo rimedio. Una recente indagine ha dimostrato
ampiamente che uomini di affari, ottimisti e sereni che “considerano il lato
migliore delle cose” hanno più successo dei pessimisti.
È evidente che nel nostro normale modo di
pensare alla felicità abbiamo posposto i termini: “Siate buoni e sarete felici”, affermiamo. “Sarei felice se avessi successo e buona salute”, diciamo a noi
stessi. “Siate gentili e teneri verso il
prossimo e sarete felici”, sarebbe più esatto dire: “Siate felici e sarete buoni, avrete maggior successo, godrete di una
salute migliore, vi sentirete e agirete con più carità verso il prossimo”.
La felicità non è qualcosa da guadagnarsi o da
meritarsi, non è una dote morale più di quanto lo sia la circolazione del
sangue. Entrambe sono necessarie alla salute e al benessere. La felicità è
semplicemente uno “stato mentale in cui abbiamo pensieri piacevoli per buona
parte del tempo”. Se aspettate fino a “meritare” di avere pensieri gradevoli è
probabile che continuerete ad averne di sgradevoli pensando alla vostra
indegnità. “La felicità non è la ricompensa
alla virtù – disse Spinoza – ma la
virtù stessa. Noi siamo felici non perché tratteniamo i nostri ardenti desideri
ma, al contrario, siamo in grado di vincerli perché siamo felici”.
Molti individui, sinceri e onesti, sono
trattenuti dalla ricerca della felicità perché pensano che sarebbe “egoistico”
e “sbagliato”. L’altruismo conduce alla felicità, perché non solo allontana la
nostra mente dall’esame e dalla introspezioni di noi stessi, dei nostri peccati,
delle nostre colpe e dei nostri problemi (tutto ciò che costituisce i nostri
pensieri sgradevoli), e ci trattiene dall’inorgoglirci per la nostra “bontà”,
ma ci dà la possibilità di esprimere noi stessi creativamente, di soddisfare
noi stessi aiutando gli altri. Uno dei pensieri più gradevoli per ogni essere
umano è quello di sentirsi necessari, importanti e capaci abbastanza da poter
aiutare gli altri e renderli più felici. Tuttavia se facciamo della felicità un
requisito morale e la consideriamo come qualcosa che si può raggiungere come
ricompensa all’altruismo, allora siamo portati a considerarci colpevoli solo
per il fatto di volerla raggiungere. La felicità deriva dall’essere e
dall’agire senza egoismo, ma come una naturale componente dell’essere e dell’agire,
non come un “pagamento” o un “premio”. Se venissimo ricompensati per il nostro
altruismo la logica conseguenza sarebbe presumere che più ci rendiamo miseri e
più senso di abnegazione nutriamo, più felici dovremmo essere. La premessa
porta alla assurda conclusione che si arriva alla felicità con l’infelicità.
Se di morale si parla, essa è nella felicità
piuttosto che nell’infelicità. “L’’atteggiamento
di infelicità è non solo doloroso, ma spiacevole e meschino” disse William
James. Non importa quali cause o malanni esteriori abbiano potuto far nascere
in un uomo un carattere piagnucoloso, lamentoso e scontento; cosa c’è di più
vile e indegno? Cosa ci può essere di più offensivo verso gli altri? Cosa può
aiutare meno di questo atteggiamento a risolvere le difficoltà? Questo non fa
altro che aggravare e perpetuare il guaio che lo ha provocato, aumentando il
danno totale della situazione.
“Noi non
viviamo, speriamo soltanto di vivere, e aspettandoci sempre la felicità in
futuro. È inevitabile che non siamo mai felici”, disse Pascal.
Ho notato che una delle cause più comuni della
infelicità dei miei pazienti consiste nel fatto che cercano di vivere sul piano
di un pagamento differito, non vivono cioè, né godono oggi della vita, ma
aspettano sempre un avvenimento futuro. Saranno felici quando si sposeranno, quando
avranno un lavoro migliore, quando avranno finito di pagare la casa, quando i
figli avranno terminato l’università, quando avranno portato a compimento una
data cosa o quando avranno ottenuto una vittoria, ma invariabilmente vengono
delusi. La felicità è un abito, un atteggiamento mentale, e se non si impara e
non se ne fa pratica nel presente non si avrà mai. Non deve essere condizionata
alla soluzione di un problema esterno, poiché risolto un problema ne sorge
immediatamente un altro. La vita è una serie di problemi. Se volete essere
felici sempre, dovete esserlo per abitudine mentale, non a “causa” di qualcosa.
“La
maggior parte delle persone è felice nella misura in cui hanno deciso di
esserlo”, disse Abraham Lincoln.
“La
felicità è un fatto puramente interiore – disse lo psicologo dott. Matthew
N. Chappell – non è un prodotto degli oggetti,
ma delle idee, dei pensieri, degli atteggiamenti che nascono e si sviluppano
dalle attività proprie dell’individuo, indipendentemente dall’ambiente”.
Nessuno, tranne un santo, può essere sempre
felice al cento per cento e, come ironicamente affermò George Bernard Shaw,
saremmo scontenti se lo fossimo. Ma possiamo, pensando e prendendo una semplice
decisione riguardo ai piccoli fatti e avvenimenti della vita quotidiana, che ci
rende ora infelici, diventare felici e avere pensieri gradevoli per buona parte
del tempo. In larga misura, è semplicemente per abitudine che abbiamo una
reazione di contentezza, insoddisfazione, risentimento e irritazione in seguito
a piccole contrarietà, a delusioni o ad altri avvenimenti analoghi. Noi abbiamo
reagito n questo modo così a lungo, che è diventata una abitudine per noi. In linea
di massima, questa nostra reazione di infelicità ha origine dal fatto che
abbiamo interpretato un qualsiasi avvenimento come una scossa alla stima che
abbiamo di noi stessi. Un automobilista ci suona il clacson senza necessità,
qualcuno ci interrompe o non fa attenzione mentre parliamo, qualcun altro non
agisce verso di noi come noi pensiamo che dovrebbe agire. A tutto questo e
anche ad eventi che non ci toccano personalmente reagiamo come se fossero
affronti alla stima che nutriamo per noi stessi, perché li interpretiamo come
tali. L’autobus che dovevamo prendere arriva in ritardo, quando vogliamo
giocare a golf piove, se dobbiamo prendere l’aereo ci troviamo in un ingorgo di
traffico: a tutto ciò abbiamo una reazione di rabbia, di risentimento, di
autocompassione. In una parola: di infelicità.
“La
misura della sanità mentale è data dalla disposizione a vedere il bene
dappertutto”, disse il famoso moralista Ralph Waldo Emerson.
L’idea che la felicità, o il saper mantenere
pensieri gradevoli la maggior parte del tempo, possa essere coltivata
deliberatamente e sistematicamente facendone pratica più o meno a sangue freddo,
sembra incredibile ai miei pazienti, se non addirittura ridicola, la prima
volta che io faccio tale affermazione. Tuttavia l’esperienza ha dimostrato che
è quasi l’unica via in cui si può coltivare “l’abitudine” alla felicità. In primo
luogo la felicità non è qualcosa che capita per caso, è qualcosa che voi stessi
create e sulla base della quale decidete. Se aspettate che sia la felicità a
piovervi addosso, aspetterete piuttosto a lungo. Nessuno, tranne voi, può
decidere i vostri pensieri. Se aspettate che le circostanze “giustifichino” i
vostri pensieri piacevoli, potete anche aspettare per sempre. Ogni giorno è un
misto di bene e di male, nessun giorno e nessuna circostanza sono mai “buoni”
al cento per cento. Vi sono sempre elementi e “fatti” al mondo e nella nostra
vita personale che “giustificano” considerazioni pessimistiche e malinconiche,
o ottimistiche e felici, a seconda della nostra scelta. È questione di scelta,
di attenzione, di decisione, ma non è neanche questione di essere intellettualmente
onesti o disonesti. Il bene è “reale” come il male, è semplicemente questione
di decidere a quale dei due volgere più intensamente l’attenzione, di decidere
quali pensieri sono nella nostra mente.
Scegliere deliberatamente di avere pensieri
sereni è più di un palliativo, può dare risultati molto pratici. Carl Erskine,
il famoso lanciatore di baseball, ha detto che avere pensieri sgradevoli lo
faceva sentire peggio di un cattivo lancio. “Una predica mi ha aiutato a superare la tensione più dei consigli di
qualsiasi allenatore – egli ha affermato – Il fatto è che dovremmo fare come gli scoiattoli che mettono da parte
le noci. Dovremmo immagazzinare i momenti di felicità e di trionfo in modo che,
nel corso di una crisi, possiamo trovare in questi ricordi aiuto e ispirazione.
Da bambino andavo sempre a pescare nell’ansa di un piccolo fiume in campagna,
poco fuori dal paese in cui abitavo. Posso ricordare vividamente la scena al
centro di un enorme, verde pascolo, circondato da alti alberi ombrosi. Ogni
qualvolta la tensione mi porta a lanciare troppo lontano o troppo vicino, mi
concentro nel ricordo di questa scena serena, e i nodi dentro di me si
sciolgono”.
Un giovane rappresentante aveva deciso di
lasciare il lavoro dopo avermi consultato per un intervento al naso, che era
leggermente più largo del normale, ma non certo “ripugnante” come lui
sosteneva.
Aveva la sensazione che i suoi eventuali
clienti ridesse del suo naso o ne provassero addirittura repulsione. Era un “fatto”
che avesse un naso largo, era un “fatto” che tre clienti si erano lamentati del
suo comportamento brusco e ostile, era un “fatto” che il suo capo lo aveva
messo alla prova e che in due settimane egli non era riuscito ad effettuare
neanche una vendita. Invece di un intervento al naso gli suggerii di eseguire
egli stesso un’operazione sulla mente. Per trenta giorni doveva “tagliar fuori”
tutti quanti i pensieri negativi della sua situazione e accentrare
deliberatamente la sua attenzione su pensieri gradevoli. Alla fine dei trenta
giorni non solo si sentì meglio ma i suoi rapporti con i compratori erano
divenuti più amichevoli, le vendite erano costantemente in aumento, e il suo
capo si era congratulato in pubblico con lui nel corso di un congresso di
venditori.
Iscriviti a:
Commenti sul post
(Atom)
0 commenti:
Posta un commento